SCULTURE ALLE PORTE D’ORIENTE

SCULTURE ALLE PORTE D’ORIENTE Artisti contemporanei al Museo Archeologico, 2006
MUSEO ARCHEOLOGICO PROVINCIALE, BRINDISI
catalogo con testo di Maurizio Calvesi, ed. Studio Copernico

STUDIO COPERNICO


MAURIZIO CALVESI

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Progetto e destino si intitolava un ben noto libro di G. Carlo Argan degli anni Sessanta, pervaso dal clima drammaticamente ideologizzante di quegli anni irripetibili e ricchi di tensione.
Ma banalizzando, oggi potremmo dire che il destino dell’arte è nella sua destinazione: destinazione cui anche il progetto stesso, specialmente per quanto riguarda la scultura, è non di rado riconducibile.
Se poi in alcuni miei scritti ho parlato, non già certo di superiorità di quest’ultima, ma di maggiore”stabilità”, compattezza e concretezza di orientamenti, credo che il discorso converga appunto con il tema della “destinazione”, che alla scultura offre indubbiamente una gamma più vasta e diramata: non solo infatti musei e collezioni (mostre, naturalmente), ma anche spazi aperti del mondo, della città e persino del paesaggio.
Privilegiata, in questa sua stessa destinazione, la scultura è anche e soprattutto dai propri materiali, che continuano prevalentemente ad essere quelli duri e duraturi della tradizione, anche se, in un genere di scultura che definirei “da camera”, a volte deliziosa, si fanno oggi spazio strutture e fibre di particolare esilità o flessibilità.
Resta il comune denominatore di uno spazio che essendo per originaria e necessaria vocazione articolato nelle tre dimensioni (bassorilievi a parte), non può subire, come la pittura, traslochi dall’una all’altra.
E di una forma che, nel passaggio dalle piccole misure alle grandi e grandissime, non perde la propria qualità di compressione e di concentrazione: come si può constatare proprio anche in questa mostra, che raccoglie opere in prevalenza di dimensioni ridotte, lungo una linea che pur associando diversi orientamenti risulta omogenea, e non solo perchè frutto di scelte ben congeniali alle fondamentali potenzialità espressive della plastica.
Se più varie in effetti, come accennavo, rispetto a un dipinto, sono le possibili destinazioni di una scultura, vero è poi anche che, all’inverso, la rosa delle tendenze cui fa capo la pratica della scultura appare indubbiamente più limitata di quella che potremmo descrivere per le sperimentazioni pittoriche.
La “vocazione” dei materiali gioca, anche in questo, certamente un ruolo. Pensiamo ad esempio al forte scarto che separa in linea di massima generazioni di pittori tra di loro distanti: che so, un dipinto fauve, cubista, futurista, espressionista, surrealista, da un prodotto della Pop Art, della Minimal Art, o di Kiefer e di Hirst, o performaces e installazioni.
Un così scosceso vallo non divide invece le due stesse parti di tempo se consideriamo i prodotti scultorei: anche in questa mostra, dove può prestarsi alla verifica qualche accoppiamento, ad esempio di Arturo Martini con Giuliano Vangi. Il movimentato ma roccioso Amplesso di Martini, in cui si condensa (malgrado le dimensioni minime) una straordinaria potenza di masse, potrà accostarsi senza stridere, anzi con una singolare comunanza di tensione plastica, al bozzetto intitolato Ares di Vangi: due soggetti contrari, l’Amore e, si direbbe, la Guerra.
Ma il linguaggio prepotente dei corpi ha analoghi accenti d’impeto e di forza. Persino poi quando il più vecchio (il grande Marino Marini) pratica la figurazione e il più giovane (Riccardo Cordero) l’astrazione, potremo cogliere una qualche rima – anche se a prima vista irriconoscibile – tra le forme dei due, in quell’efficacia di ritmi spezzati, di incastri di una traiettoria nell’altra, nei quali si avverte la forza di puntamento degli spezzoni plastici.
Dalla Nuotatrice di Emilio Greco che sforbicia l’aria (l’acqua) con tutta la lunghezza delle gambe e attinge il respiro volgendo la testa sul collo proteso, alla coppia come danzante di Paolo Borghi che sgradina squisitamente sul piedistallo disegnando con le vesti una scia ai lunghissimi corpi, la delicatezza d’osservazione è un elemento comune, pur nella assai pronunciata diversità dello stile; e comune è l’allungamento delle forme, benchè in Borghi associato a un esito di esilità e leggerezza, lontano dal compiacimento dei rotondi e sensuali volumi di Greco.
La scultura è sovente espressione del “peso” e della potenza della materia; altre volte si affida invece allo slancio che vinca la gravità, attingendo questa opposta risorsa espressiva all’allungamento, appunto, delle immagini. E nella storia della scultura, almeno a partire dai manieristi e dal Giambologna, troviamo un numero di figure slungate certamente superiore a quello che potremmo censire nella storia della pittura.
Nell’eccelso magistero di Giacomo Manzù – si veda in questa mostra la Tebe seduta – la femminile snellezza del corpo flessuoso, impostata, ancora, sull’allungamento, è esaltata dalla luce sdrucciola che scorre sul nudo, come seguendo l’indicazione del sottile braccio destro, stirato fino all’abbandono della mano. Luciano Minguzzi, nella sua picassiana figura di Acrobata, associa l’efficacia verticale dell’allungamento, nel busto, con l’ipertrofia delle masse nella metà inferiore del corpo. Compensa tra di loro slancio e peso Aligi Sassu, nell’irruente figura del Cavallo impennato.
Agilità, snellezza possono associarsi alla levità in quell’estremo esito della scultura che è l’effetto “aereo”, come nella scala di Piergiorgio Colombara che è così leggera da non aver bisogno di punti d’appoggio, in alto, se non nell’aria dove le due assi in progressiva espansione sbocciano in terminazioni floreali.
Un antico espediente con cui gli antichi conferivano pittoricismo e leggerezza alla materia, la tecnica del traforo, è adottata da Colombara per far levitare lungo i gradini quei passi (come dell’uomo invisibile?) solo accennati.
In Città della memoria e dell’oblio Paolo delle Monache allude alla dimensione onirica di ricordi che, appunto, stingono nell’oblio, affastellando sfoglie di caseggiati l’una sull’altra come in un castello di carte che tema il minimo soffio. Qui la tradizionale “stabilità” della scultura è addirittura rovesciata in un suggerimento emotivo di instabilità, certo più suggestivo che se il soggetto fosse dipinto ed eludesse così la sfida alle leggi di gravità. Puntano all’effetto longitudinale in altezza anche Novello Finotti con la sua filiforme Lampada, sospingendo verso l’alto misteriosi snodi e sospensioni; e Augusto Perez con l’opera intitolata Nostalgia, tuttavia nello sviluppo stregato di un ibrido come di radici estirpate e sovrapposte, che par degno della viscosa fantasia di Salvator Dali.
Affinità generazionali si avvertono tra il legno di Umberto Mastroianni, che frena il suo abituale dinamismo nell’incontro zigzagante dei piani e nel commento delle linee, che li marcano con andamenti incrociati; e l’Alabastro bifrontale di Pietro Consagra che, al contrario, anima i propri equilibri intrecciando anch’egli, nel risonante chiaroscuro, dei sinuosi profili. Fontana elude gli schemi geometrici, anticipando nella fantasia barocca di un piatto le migrazioni cosmiche dei suoi lacerti informali. Suggerisce un’immagine di volo il bel frammento di Gio’ Pomodoro, mentre riposa la Colomba di Floriano Bodini, dal corpo ben nutrito, di un’impiumata e morbida compagine: lo allevia una frusciante scrollata d’ali.
Con la scultura di Pomodoro, è confrontabile per il formato e la sia pure irregolare quadratura del perimetro, quella di Andrea Cascella; ma inducono sensazioni opposte; nel secondo caso di forte compressione e costrizione dei piani, stratificati e incastrati, come ingabbiati da una museruola, e condannati a esibire la letteralmente granitica inerzia del peso; di liberazione invece, nell’opera di Pomodoro, e di lirica, ventosa fluttuazione dei volumi, grazie anche al dinamico contrasto tra superfici scabre e levigate. Alla chiusura di Cascella si contrappone anche lo schiudersi dei piani concavi in Cuschera, come due metà slacciate, per effetto di opposte spinte, da una cintura che si è spezzata.
Ma eccoci alla Svista di Bruno Ceccobelli,titolo spiazzante per una altrettanto spiazzante soluzione plastica. Quel suo riquadro cuspidato può forse ricordare la sommità di un campanile di paese, dalla cui finestrella risuoni il batacchio di una campana: la occupa invece, quasi alla Savinio, una testa sproporzionata, visibile solo per un quarto; e questo quarto fa da cornice al surrealistico protagonismo dell’occhio, sgranato su un piccolo globo che cade (?) lungo la parete; ma è come se lo sguardo e la sfera si inchiodassero a vicenda.
All’iniziale confronto tra maestri di un sia pur recente passato e artisti ancora giovani, possono riportarci Patrizia Guerresi e Giuseppe Bergomi a cospetto di Francesco Messina. Il florido nudo femminile di quest’ultimo è classico anche e soprattutto nell’opulenza dei fianchi, che il maestro profonde in una ricerca d’armonia, e da cui il busto cresce più timidamente; il corpo accovacciato della nuda di Bergomi si nasconde invece in se stesso, per far risaltare il volto: poco saliente nella pacata versione di Messina, protagonista e di cruda ostentazione nel realismo incisivo di Bergomi.
Al contrario la Guerresi, che introverte nel nero e nell’avvolgimento le masse. In Blach Kunta sono le ampie tuniche a nascondere le membra raccolte, creando un gioco corposo ma attutito di masse, solcate da pieghe che rendono una volumetria di precisa essenza disegnativa.
Un misterioso rimando di silenzi sprofondato nel nero, fa balenare nei volti la luminosa bisettrice.

* Estratto dal testo in catalogo

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