LUCIANO CAPRILE

Tratto dal catalogo della mostra EX-VOLTO, Museo Barracco, Roma, Ed. Renografica, 2008

PAOLO DELLE MONACHE:  LUOGHI ED EXTRA-LUOGHI

“Modello sempre il vuoto: mi dà ampiezza, misteri, rivelazioni. Non so quel che riesce, non conosco che un’armonia creativa”(1). Ed ecco l’inevitabile deduzione: “A un certo punto l’arte è una magia”(2). Questa era la confessione di Arturo Martini all’amico Gino Scarpa.
Paolo Delle Monache si deve essere abbeverato alla medesima fonte: non a caso la testa enigmatica, talora dormiente e talora interrogante, che ricorre in moltissime sue opere è scaturita
da una inattesa folgorazione emozionale al cospetto de “La pisana” del maestro trevigiano.
Altro punto d’incontro è il tempo, ovvero l’assenza del tempo. Le opere dei due autori sembrano escluse da ogni possibile calendario. Sarà forse a causa del respiro lungo ( lungo nei ritmi e lungo nelle tracce) degli etruschi, perenni contemporanei, che permeano prima i gesti di Martini, quindi quelli di Marini e di Campigli per toccare infine la grazia di Delle Monache? Il motivo sarà benissimo da ricercarsi in quel solco privilegiato, ma non solo: è il gioco della memoria da tradursi in cultura a vestire di assoluto i suoi comportamenti, a determinare sospensioni di respiri che conducono allo smarrimento temporale. Infatti anche nel percorso più recente del nostro autore compaiono frammenti che rimandano alle architetture metafisiche care a Giorgio de Chirico e a Carlo Carrà.
Ma non solo: le strutture abitative dei fondali del Masaccio o l’idealizzata città che accompagna da lontano la cavalcata di Guidoriccio da Fogliano nel celebre affresco senese, attribuito a Simone Martini, sono luoghi di una preziosa memoria che soccorre i passi artistici di Delle Monache aiutandoci a entrare in contatto empatico con le sue sculture. Anche se non riusciamo a cogliere appieno il significato più recondito delle immagini proposte, ci rendiamo immediatamente conto che esse appartengono di diritto alla nostra sensibilità.
Delle Monache fa suo il concetto di Arturo Martini secondo cui anche il corpo è un paesaggio e tale va inteso in fase di svolgimento della trama da trasformare in opera. Trasformare ovvero formare attraverso. Il procedimento compilatorio di Paolo si avvale della teoria dell’accumulo unito all’esigenza della crescita, col rischio illusorio di dover abbandonare o di lasciare nell’incertezza il senso dell’equilibrio. Ma siccome il tutto vive in uno spazio privato del tempo, si possono anche ignorare le regole della statica. Le composizioni stanno in piedi comunque, testa su testa, mano su mano, frammento su frammento, sostenute dal senso supremo della creatività e della grazia, della sensibilità e del mistero. Non a caso Delle Monache usa il termine di “extra-luoghi” che, al di là delle annotazioni filosofiche, possiamo pensarli come luoghi che non hanno una corrispondenza nella realtà ma sono ben radicati nell’inconscio, in quella nostra vita parallela che filtra la quotidianità per renderla appetibile o per lo meno leggibile dalla parte meno esplorata della coscienza. In questi “non luoghi” i rapporti tra le cose raffigurate possono raggiungere risultati impensati; anche i rapporti tra e con le emozioni e/o le percezioni toccano vie poco esplorate nel perseguire la concretezza di un appagante approdo. Chi giunge qui, per dirla con Delle Monache, gode di uno stato di grazia.
Come si è detto tale percorso è stato favorito dalla folgorazione per “La pisana” di Arturo Martini.
Il suo volto, estrapolato e ripetuto per un’interminabile costruzione onirica, apre idealmente la nostra riflessione sulle sculture presentate in questa circostanza.
Sognario è un titolo che si addice a chi deve guardare attentamente per apprendere: assomiglia ad “abbecedario” o a “vocabolario” non solo nel rimando fonetico ma perché a indagare una simile costruzione ascensionale si imparano i poetici passi della notte che concede ai pensieri una vacanza dal quotidiano e al pensatore una rivincita di godibile fuga nel desiderio. Infatti i volti che si susseguono nell’arrampicata verso il cielo accumulano non il variegato peso degli elementi impilati ma la perentoria e progressiva leggerezza degli ovali, cosicché il culmine può ben coincidere con l’ultimo, ideale granello della sparizione di un volto che si è finalmente tradotto nella somma stupefazione del sogno dei sogni.
Siccome il luogo con Delle Monache diventa “tempio, nel senso che da lì si contempla, si pensa e si arriva a pensieri e ad azioni extra-ordinarie”, ecco il passo successivo della creazione: un paese a misura di sguardo interiore, ovvero dove tra sostanza e apparenza c’è un significativo rapporto di scambio, come tra il dentro e il fuori. Vale a dire che il paese rappresentato è completamente contenuto nei pensieri di chi osserva: esiste solo tramite questi perché da questi è costruito e sostenuto. È il paese che appartiene non solo alla cultura di chi lo ha rappresentato ma entra decisamente nella cultura di chi osserva e decide di appropriarsene. La testa che contempla la scena di nascosto, monumento tra i monumenti, si ritrova idealmente in ciascuno di noi. Così si può accogliere lo Sguardo della presenza schermata dai ritagli traforati delle case.
Ma ritorniamo alle tentazioni aeree che racchiudono da un lato valenze velatamente simboliche mentre dall’altro rimandano, per le loro connotazioni oniriche, a situazioni surreal-metafisiche.
Accostiamoci pertanto all’albero costituito da mani che germogliano le une sulle altre, a palme aperte e rivolte verso l’alto. La via della speranza, che si evidenzia già nelle radici affioranti alla base del tronco, produce una spinta a un divenire di ripetute gemmazioni e diramazioni radiali. La mano duplicata cerca il soccorso o il sollievo di un’impronta; il gesto ripetuto e assillante si apparenta all’invocazione e si sostituisce alla voce, mima l’anelito della fuga. L’albero piantato nel giardino delle ambizioni e delle necessità esistenziali ha bisogno del continuo sostegno della fiducia per fornire il necessario alimento alla sua aspirazione di crescita.
Anche le case crescono con la leggerezza e l’apparente provvisorietà dei castelli di carte che attendono solo un colpo d’aria o un fiato più deciso per veder vanificato l’impianto piramidale
dell’incanto. La labilità di un pensiero è ben rappresentato da questa costruzione effimera ancorché resa talora complicata dalle capacità assemblatrici di chi si dedica (forse meglio dire si dedicava) a tale passatempo. Paolo Delle Monache segue solo apparentemente una simile regola della fragilità. In effetti le sue crescite a piani sovrapposti chiamano in causa la leggerezza del metallo che non possiede però il sapore della provvisorietà. Non solo perché gli elementi che costituiscono il racconto sono accuratamente saldati gli uni agli altri, ma perché a sostenerne la crescita interviene un collante prodigioso: quella cultura della memoria ampiamente evocata nella nostra riflessione. Sguardo all’infinito e ritorno appartiene a tale categoria di opere. Anche Tu lì si nutre della medesima capacità evocativa che accosta antiche architetture ai grattacieli: la ricorrente testa questa volta non ha scelto un angolo appartato ma la sommità dell’ardita costruzione. È adagiata, bianca e sognante, appoggiata come su un giaciglio d’aria ed è anche un poco eccentrica come una rigida bandiera. Proprio lassù nascono i sogni? Proprio lassù converge la linfa dei pensieri spremuti dalle citazioni sottostanti. Tu lì è un dato di fatto da cui non si può prescindere per
formulare ulteriori domande o per azzardare le più controverse supposizioni.
Castello in aria e Piccolo castello rimandano ancora al menzionato gioco da farsi con le carte un po’ per quel “castello” menzionato nel titolo, di più per l’atteggiamento di ludica spensieratezza che accompagna l’evento nel suo divenire. Addirittura gli elementi traforati rammentano, soprattutto in Castello in aria, le listelle del “meccano” che venivano talora adoperate per costruzioni eccentriche, non previste dal foglietto delle istruzioni per l’uso corretto. Anche Delle Monache pare volerci condurre per mano lungo i sentieri della spensieratezza fino al culmine del mulino a vento.
Nella disposizione sul piano i frammenti di città si dispongono talora come i sipari di una rappresentazione della nostalgia: da un lato c’è il gioco combinatorio degli elementi che
costruiscono una piazza di arcate metafisiche con citazioni di facciate di chiese e di campanili, dall’altro lato c’è il ricorrente bisogno di radunare i frammenti della personale conoscenza ( almeno quelli che ritornano in quel momento a galla o che vengono suscitati dalla personale suggestione ) per costruire una propria “città” da cui partire per l’avventura della vita. Vengono pertanto alzate labili trincee dietro cui deporre il proprio pensiero e magari anche il volto della seduzione affinché il teatro, il piccolo teatro dei nostri giorni ci aiuti a soccorrere la vita. Il non luogo o l’extra-luogo diventa quindi il tramite sempre perfettibile per misurare con rinnovata e rinnovabile coscienza la realtà. Non esiste altro metro che tenga nel giusto conto la memoria, che la esibisca e ne riannodi i frattali con pari evidenza e con altrettanta poetica leggerezza. In questi ultimi tempi Delle Monache ha accantonato alcune parti anatomiche del corpo umano (in particolare le lunghe gambe da cui scaturiscono imponenti piedi, le braccia altrimenti affusolate e spropositate) per spostare solo apparentemente il fuoco dell’attenzione. Anche senza la sintesi propugnata da Alberto Giacometti (l’altro autore in cui egli ha evidentemente specchiato il suo spirito) aveva bisogno di un rinnovato respiro narrativo per continuare a parlare dell’uomo e del suo travaglio, per elaborare ancor più sofisticate trappole in cui far cadere la curiosità della gente.
Si comprende così meglio la nascita di queste creazioni vagamente labirintiche in cui ci si può solo perdere a patto di ritrovarsi nelle immagini citate per poter ricucire una storia plausibile grazie al personale filo d’Arianna fornitoci dal DNA, ovvero dalla cultura. Tutto è scritto dentro di noi, tutto
va letto con pazienza e applicazione. I tasselli in bronzo dell’ artista potranno diventare in tal modo
le pagine fondamentali della nostra ri-conoscenza.
In Albero la mano che in precedenza aveva assunto il ruolo di foglia ora è un tronco che rivolge al cielo le cinque dita nella città disegnata dalle sottili ed apparentemente effimere pareti di piombo.
È un albero in attesa che qualcuno lo faccia vivere in questa solitudine dettata dal silenzio, dall’assenza inquietante di voci ( è proprio quella mano scaturita dalla terra a fornire l’inquietudine che le teste non esprimevano o esprimevano con intima drammaticità ). Questo assomiglia all’albero di Samuel Beckett in “Aspettando Godot” che proprio Alberto Giacometti aveva disegnato per lui così spoglio, così impudicamente essenziale nella semplice esibizione di pochi nudi rami, per rimarcare la desolazione di una vana, ricorrente attesa.
Vengono quindi l’Atelier padano e l’Atelier che, sono parole di Delle Monache, “diventa il corpo stesso del pittore (o è il pittore a diventare il suo atelier, corpo allargato, tempio in cui contemplare la realtà)”. Un luogo di clausura e di osservazione privilegiata, un luogo in cui far nascere ogni divenire percepibile dalla coscienza dell’esistere.
Con Made in Italy il discorso viene puntualizzato nel senso che viene offerta una lettura più ampia, addirittura geografica alle citazioni, anche se i monumenti e le pareti delle case occupano in maniera casuale ogni angolo della penisola. Il caos compositivo produce, in una seconda, analoga prova ( che potremmo tradurre in un prima e in un dopo ) un’eruzione di elementi del racconto storico/culturale che ci riguarda. L’allegoria di questo albero formato da elementi architettonici in crescita ascensionale parte dalle ipotetiche radici che affondano nella nostra cultura. Il futuro (l’albero in costante crescita) può trovare il necessario alimento solo da questo bene che ci nutre da sempre. La cultura dell’oggi e del domani dipende dalla consistenza della base, dalla bontà del terreno che l’accoglie e dalla perizia di chi lo coltiva. Non a caso gli ultimi elementi alla sommità del percorso paiono in bilico, in attesa di un ulteriore “mattone” o “palo” che procuri un nuovo appoggio, un sostegno, un puntello. L’ascesa va quindi sorvegliata e sostenuta da parte di valori solidi, autentici, non effimeri o transitori, pena la perdita di ogni frutto e il ritorno a quella sterilità così ben rappresentata dalla pianta beckettiana di Giacometti.
E il nome di Giacometti non è casuale parlando di un Delle Monache che ha fatto dell’essenzialità e della scarnificazione un punto di riferimento. In lui infatti era già in precedenza giacomettiano il modo perentorio e non compiacente di manifestare l’intimo disagio esistenziale dell’umanità; è una perentorietà che si ritrova nelle distillate prove odierne che tengono anche conto dei silenzi, delle pause. Quale altro protagonista dell’arte del Novecento possiamo evocare? In una certa misura Fausto Melotti per la capacità di tradurre pensieri di assoluto ( da Melotti vengono addirittura catturati certi respiri acquisiti dalla musica ) in forme leggere, in movimenti raffinati, in magici equilibri.
Paolo Delle Monache sa dunque essere austero e giocoso, coinvolgente e distaccato nel trattare gli argomenti dell’appartenenza. Dal suo osservatorio privilegiato usa il volto de “La pisana” ( un volto che, tra le sue mani, diventa un ex-voto ) per indagare la piccola e la grande storia che ci ha costruiti. L’impronta di quel volto c’è sempre, anche quando non appare in questi non luoghi o ex luoghi che alla fine sono i veri luoghi in cui riflettersi e riconoscersi compiutamente. Per la sopravvivenza del pensiero, per la pulizia dello sguardo, per il breve riposo della speranza.
NOTE
1) Gino Scarpa, “Colloquio con Arturo Martini”, Rizzoli, Milano, 1968, p. 12
2) Idem p. 4