JANIA SARNO

Tratto dal catalogo della mostra CALEIDOSCOPI, gli ori, 2016, in occasione della mostra allo Studio Museo Francesco Messina, Milano

COLLOQUI

Roma, Largo Argentina, spazio lieve di scalpiccio pedonale, più lontani i tram – varco del tempo fra i gatti ed i nembi; sghembi i controluce fra le muse impettite del Teatro sul cielo. Andiamo camminando, Paolo ed io. Mi racconta di “Caleidoscopi”: dell’idea di racchiudere le sue sculture e i film di Benoit nati dal cammino artistico comune in un unico luogo d’esposizione quali convitati, personaggi di una storia. Parla anche dell’intersecarsi dei due cammini e di una grande scultura nuova, “Diario”, a far da telo di cinema per la proiezione dei film. Composita creazione, frutto che mi fa pensare a un fiore.
Il caffè della libreria lì da presso ci accoglie con grandi frasi ai muri, e volti di saggi, tra gli sbuffi del vapore per i cappuccini. Guardiamo sul computer il video che Paolo mi propone: è il film di un film proiettato su una scultura, su un grande disco di luna tutto abitato. Le immagini vi scorrono sopra, vi scivolano, velate da sotto dalla pastosità della sua materia; e la materia diventa grazie ad esse più lieve; un po’ le trattiene, impigliate nelle finestrine.

Scorrono le sequenze, con figure di persone che disegnano un campo da calcio, prima che una distesa di terreno crepato conduca lentamente un pastore e un cane, che corre a prendere il sasso appena lanciato, verso di noi. Un’architettura indefinita viene attraversata da parte a parte da un motorino; poi un viadotto, quindi una struttura abbandonata di palazzo con un piccolo uccello di passo che la sorvola. E visioni in viaggio: in un trascorrere laterale, ciglioni riarsi; donne su soglie di case, nel loro presentarsi e scomparire. Alti piloni, minacciosi; cespugli circondati da un occhio che indugia ad osservare, mentre cementi inconclusi vengono subito lasciati cadere dallo sguardo per andar oltre nelle svolte della strada. Altre strutture di cemento, abbandonate, o le stesse architetture attraversate a ritroso. Unfinished Italy. Come l’Italia di un ponte mozzato, che un uomo guarda. Parla poi, il pastore, inudibile pur così umano, su nubi in lento trapassare. Terra crepata, da cui riaffiora il traforo della superficie scolpita. Nella luce scialba, il pastore e il cane si allontanano.

Mi colpisce molto, questa visione in movimento e in viaggio, da varie prospettive e con diversi tipi d’inquadratura, sempre in moto e sempre in soggettiva: gli oggetti/eventi entrano nel campo visivo di chi guarda come se egli stesso guardasse, viaggiando, ora alla guida ora distratto verso il lato, e ne escono, rapidi, impermanenti, senza un significato. A tratti il “guardante” esce dalla visione rettilinea del viaggio e va nelle cose; poi riprende il suo peregrinare. Sotto le immagini, la “scriptio inferior” della tua scultura, Paolo, con un effetto che nel suo essere casuale è straordinario.
Sì, il film entra nella scultura attraverso quell’uomo che segna col gesso le linee del campo da calcio, inconsapevole writer su “Diario”. Altre figure ne misurano in seguito la spaziosità, lanciando un sasso, andando a cavallo, entrandoci – da destra, da sinistra, dal fondo – indicandone il cielo sopra o inoltrandosi verso la profondità della fuga centrale. Io stesso sono rimasto spiazzato quando ho visto il materiale filmico proiettato sul “grande schermo” della scultura. Stavi sostanzialmente dentro al film: quei volti, enormi, e qualunque suo personaggio che veniva distorto, deformato, diventando ogni momento un pezzo di anamorfosi… di volta in volta con dilatazioni e distruzioni, rendendo tutto più profondo. Non era tuttavia solo questo! Ti spostavi di mezzo metro e vedevi anche le ombre, precise, scandite, che trapelavano dalle varie casette, in un gioco di luci che era la pasta di questa struttura… Il film entra nella scultura, ma in punta di piedi.

L’impalpabile materia del film, che gioca con la materia solida della scultura! Quest’ultima, proprio dal video – dal suo essere visività in movimento, montata nel tempo – riceve uno statuto di discorso, che si svolge nella durata. Due linguaggi visivi, in due “discorsi” paralleli, basati su un paradosso: quello tra la lieve, volatile luce filmica – che però presenta immagini di pesantezza, di grandi opere abbandonate – e la consistenza, densa e concreta, del bronzo scolpito, che invece trasmette all’occhio la levità di un sogno, la delicatezza di una sfoglia, di una trina… Da un lato, cementi e aggetti da tonnellate, anche visti dal basso, in modo da pesare sulla visione; dall’altro, un lieve globo di semi anemofili prima del soffio, il disegno aereo e leggero di una lamina, di un volo!

Il problema è che ciò che ci aspetta – anzi, ciò che ci circonda – è molto più simile al paesaggio mostratoci da Benoit. Lo spazio che viviamo è una costellazione di incompiuti.

Sì, è evidente nella ricerca filmica di Benoit quest’intersezione fra un piano simbolico, esistenziale, e quello reale, storico, del malcostume edilizio come problema del nostro tempo. Sorge in me un’inquietudine: se noi, come dici, siamo lo spazio che viviamo e se questo spazio è una degradata costellazione di incompiuti, come potremo “alzare l’orizzonte”?

Con “Diario” cerchiamo di raccontare la scissione tra il fatto che l’Italia è un luogo meraviglioso, essendovi nel sottosuolo una miniera di civiltà e bellezza inesauribili, ma in superficie ci sono questi mostri, questi sauri di pietra. Da una parte, un presente di pesanti frammenti, ci attornia; dall’altra, l’esistenza di frammenti del passato, antichi, salvifici, che danno la forza di credere di nuovo in un futuro e immaginarlo, nella catena di un trasmettere, di una tradizione.

È un paradosso anche questo, dunque: fra un sottosuolo ricco di “vita” – della vitalità della bellezza – e un sovra-suolo popolato di morte: di immobili mostri scheletriti. In realtà non mi veniva in mente il rapporto col passato culturale, guardando le tue opere: pensavo piuttosto al valore della bellezza. I due “discorsi” paralleli, del film e della scultura, creano un paradosso ulteriore. Le visioni filmiche restituiscono un’architettura urbana o suburbana in tutti i sensi svuotata: privata di suoi elementi costitutivi – pareti, tetti, finiture – e anche del suo significato, per l’inutilità di questi manufatti, a fronte dell’invadenza con cui insistono sul territorio e s’impongono e permangono nell’orizzonte visivo. La scultura evoca invece lo spazio lindo di un’architettura pregnante e abitata, densa di relazioni e memorie, elegante come un traforo di pizzo, armoniosa! Una città da miniatura, dai riflessi dorati, inserita ad arte in un capolettera; oppure da perduta società auto-regolata, il cui affastellamento di mura è specchio di un abbraccio solidale fra persone sulla cima sicura di un castelliere, come in un antico abitato, con le casette l’una con l’altra a grappolo intorno a un decumano. Per me che guardo, tuttavia, l’unione fra i due mezzi – il film e la scultura – toglie a quest’ultima la sua solidità. Toglie a questa virtuosa Città del Sole – un disco bronzeo inscritto in un quadrato bianco – il suo esistere come certezza. Il film “entra” nella scultura anche in questo modo: mettendo in ombra l’armoniosa costruzione, rendendola precaria. Percepisco allora tutto l’insieme davvero come un seguito di frammenti, nel tempo; e me ne giunge una doppia, contraddittoria suggestione: l’insidia della frantumazione, della corrosione interna, della natura frammentaria che comunque è propria all’incompiuto; ma, anche, l’incanto del caleidoscopio. Mi piace guardare più a quest’aspetto, perché va a visitare le grandi stanze del l’immaginazione.

“Consentitemi di darvi tutto il meglio di me”, diceva Babette, la cuoca di Karen Blixen che trasformava in una forma d’arte la cucina. Ecco, credo che nasciamo con un progetto, immaginando di dare tutto il meglio di noi, preghiamo quasi che ci venga consentito. Poi c’è la realtà: se potessimo eluderla, staremmo in un iperuranio diverso. E la realtà ci permette di realizzare, di tutto, solo una parte. Questo è “Diario”: sovrapponendo il caos, le immagini di Benoit sulle mie, tutti i progetti che attendevano di diventare cose straordinarie e che, pur tendendo al meglio, non lo sono diventati, si sovrappongono, si sommano, vivono una nuova possibilità. Noi siamo proprio questo “frammentone”, che può diventare un po’ più completo, il più completo possibile, ma comunque un frammento. Dando il meglio di noi. Questo è “Diario”. 

Mi parli della frantumazione come limite. E… come risorsa, come potenziale? Parlami del tuo, del vostro caleidoscopio. In esso ci sono, per natura, il frammento e il movimento: gli stessi elementi del sogno; che è un altro tuo tema, il filo che forse collega tante tue teste e testine addormentate.

Per certi versi tra film e sogno c’è un’analogia molto forte, perché entrambi si svolgono in un luogo chiuso: il film nel cinema, il sogno dentro di noi. Quindi, io, prima, ho scolpito dei… cinema! Testoni cioè che dormono, contenitori di sogni. Poi sono arrivato al cinema: ho costruito un grande telo – schermo cinematografico – tarlato, dalle tante finestrelle. E sopra il film. Prima, si trattava di una scultura in atto di ricordare, di “sognare”; ora, trovi immagini messe insieme nel tentativo di evocare uno spazio-tempo onirico svelato, fatto di sbalzi, ricordi riconoscibili uniti a immagini criptiche, come accade nei sogni. E alla fine tutto si trasforma in un grande autoritratto, il sogno non essendo altro che un rimuginare: una ruminazione di ricordi che tornano, riaffiorano, nella tracciatura di un diario. Un’altra corrispondenza è infatti secondo me proprio questa: quella del sogno col diario, per il suo tenere a mente alcuni dati del vissuto. Il punto è fare un grande racconto. Dopo la sua formulazione, però, avviene anche un prodigio: che racconti di te ma tante persone si riconoscono in determinate opere d’arte. Il prodigio sta nel fatto che quel racconto individuale si trasforma, non volutamente, in qualcosa di collettivo. Non è più l ’autoritratto di chi ha creato quel lavoro, ma di chi in quel lavoro si ritrova.

È dunque questo, l’arte? Attingere alle grandi strutture, vaste e ariose, del pensiero di tutti attraverso l’umile setaccio del proprio?
È scrivere un diario, fra il grido “consentitemi di dare tutto quello che posso!” e il confronto continuo con l’imprendibile, per tirarne fuori il senso nascosto. È enorme, tutto ciò che mi circonda; ma il senso, ad esso, lo devo dare io. Mi sento come l’omino che sta dentro le mie sculture. Illuso di costruire il Ponte di Brooklyn con le carte da gioco.

***

Sogna l’omino, mentre, di ritorno, cammino nella città. Sogna da un punto interno che non si vede ma il sogno si svasa verso l’alto come un cono – sogna, l’uomo, e la testa è vasta: è quasi cielo. Cammino la città lungo il suo splendore, dov’è il fiato del tempo, con i gabbiani. Riporto alla memoria quella volta che ci siamo incontrati in una caffetteria a tema: sull’improbabile per noi tema della motocicletta. Era l’unica restata aperta, nel tardo pomeriggio romano di una vigilia di Natale di non so quando, per cui c’erano solo ormai cornetti, per il tè. Avevo portato con me il bel libro, uscito un paio d’anni prima in occasione della mostra alle Terme di Diocleziano, su Paolo e Benoit, Non-finito, infinito, con la copertina “carta da zucchero”, colore che i più giovani non conoscono e pensano che si tratti di una bella metafora (e che non identificano nemmeno come “color ferroviere”). Mentre lo sfogliavamo, in mezzo a questi ossimori meravigliosi – fra cornetti e pomeriggi, fra noi e i luoghi, fra tenui colori e colori sgargianti, impropri, lucidi di carrozzeria – Paolo mi aveva proposto di guardare insieme sul computer, come continuazione del dialogo fra scultura e video inaugurata in quella mostra, un suo piccolo film. Si trattava già di un film al quadrato, ossia della ripresa dello scorrere di un video proiettato sulle sculture. Era il bozzetto per un concorso di anni prima realizzato con il gruppo Unità C1, inizio di nuove idee che lo avrebbe portato alla simbiosi con Unfinished Italy di Benoit Felici. Bianche formule, comparivano, per me come enigmi, che iniziavano a ruotare e, inghiottite, si trasformavano nell’acceleratore di particelle del CERN. Poi, un’altra veloce rotazione ed ecco da quel vacuo dentato e nero prendere forma un fiore circolare: l’anello fiorito di un rosone di cattedrale, trina bianca e rosa incastonata nel concetto di circolo. Archeologia di un istante. Ne ero rimasta stupita. E avevamo parlato della storia dell’uomo. Del cammino sorprendente delle idee, della bellezza, dello stupore.

Mi ero immaginato come poteva essere la prima alba, il primo campo arato, e il fatto che un rosone non è un rosone, ma l’intuizione dell’acceleratore, che sarebbe venuto otto secoli dopo; e che nella cultura la ricerca è un cordone ombelicale cui siamo attaccati tutti, lungo un cammino imprevedibile e tortuoso. L’idea mi era stata suggerita dal concept di un monumento per la Normale di Pisa, da cui era scaturito il bozzetto scultoreo, col video proiettato sopra.
Dovevano esserci le nano-tecnologie del futuro e, alle spalle, la catena della cultura. Pulsano, gli strani fili che girano diventando un microprocessore. Lo immaginavo come una cosa che prima o poi sarebbe diventata umana: con un cuore no, ma con un respiro. Riscattato dal suo essere solo un microchip.

È straordinario, questo ricombinare insieme immagini e idee lontane attraverso un elemento comune – il cerchio – che ricompare come tuo topos immaginativo, oltre che porsi come costante elemento formale. L’emozione nasce dall’associazione impensabile, vertiginosa. Pochi istanti, anzi …uno, per rimanerne stupiti. E lo stupore dona occhi nuovi, è come un piccolo umile dito dell’Altissimo, proteso verso la creazione.

Per me lo stupore è capire che non siamo soli. Mi stupisco quando mi rendo conto che l’emozione che provo io per una determinata cosa, secoli fa o anche pochi anni fa, un mese prima o nell’ultimo istante, l’hanno provata anche altre persone: che anche dopo altri la sentiranno. Credo che i pensieri non vengano concepiti “a solo”, ma che veniamo tutti attraversati da quei pensieri.

Oh! Mi ricordi Lévi-Strauss! Sento che i miei libri, diceva, si scrivono attraverso di me e quando mi hanno attraversato non ne rimane più nulla. Vedo me stesso come un luogo in cui qualcosa accade, ma non c’è alcun “io”, né alcun “me”. Ognuno di noi è una sorta di crocicchio dove le cose hanno luogo.
Sono come la pioggia, i pensieri e le emozioni. Piove da un tempo infinito. Così anch’essi attraversano gli esseri umani, da sempre.

Sì, e che consonanza, si sente, quando Goethe, nel Viaggio in Italia, scrive: “Oggi ha piovuto”…

È così anche il vento. Quando insegnavo in Sicilia, lo percepivo intensamente. Era lo stesso vento che hanno sentito per secoli altre persone, quelle che stavano lì, e nulla può alterare, inquinare questa comune percezione. Il vento ti accompagna, dando senso a te che guardi e al luogo in cui ti attende. Quel vento è il discorso che speravi di udire, il racconto di cui avevi bisogno, che ti fa intuire per alcuni istanti l’universo. Gli antichi popoli che avevano abitato l’isola ed io avevamo quest’unica cosa di identico, non mutato dal tempo e dai restauri, né dai non finiti: non reso rovina. Udivo il vento come nel passato, come nel futuro. Ero in un’atmosfera disciolta nell’aria, di quelle che solo alcuni pittori riescono a rappresentare, una luce che piove da un sole senza peccato originale. Come se il vento, cancellando il rumore, rendesse più consapevole l’uomo.

***

Nella vineria di un “quartiere reale”, periferico ineducato, vivacemente attraversato da corvi imperiali e grida di gabbiani, fra le esposizioni dei bazar di cinesi e le girandole, che (come i caleidoscopi) ormai non son più giochi, contro i piccioni. Con il nuovo ossimoro di due spremute scaturite da un tanfo arcaico di cantina e il sottofondo di una partita Empoli-Roma in streaming; le urla, a tratti, per i goal. Di nuovo parlo con Paolo della mostra ormai imminente, della sua opera, del lavoro con Benoit.

A un tuo elemento ricorrente – quello dell’edificio, del creare in scultura un’architettura – se ne sposa un altro: quello della facciata, del seguito di facciate, le cui porte e finestre formano un traforo. Si tratta anche di un bell’elemento formale, nell’elegante scansione di un merletto. Ma, come concetto… Le chiese e le piazze riportano da un orizzonte formale a uno spazio concreto, sociale, usato insieme, visto da fuori. Le porte e finestre richiamano invece il pensiero verso l’interno, la miriade di interni della vita personale. Una volta mi parlasti del rapporto tra chiuso e aperto, fra dentro e fuori, pensando al “chiuso” di una testa – e di una tua testa scolpita – come a un luogo dove, come in un cinema, avviene qualcosa di significativo. Ora mi colpisce la natura pluri-perforata della parete che delimita i due mondi che dovrebbe separare.

Si può esprimere questo con un concetto molto semplice e ordinario: quello di colapasta. Di scultura come colapasta, intendo, setaccio e colino; come “filtro tra”. Pensa a Newton e alla scomposizione della luce, “traducendola”, attraverso il prisma, in fasce di colore e facendo passare il raggio verde attraverso una fessura. Vorrei che le mie sculture facessero una cosa molto simile: filtrare da fessure la luce indifferenziata nei colori delle storie delle persone. Pensa anche alle eliche del DNA come a striscette legate di colori, a formare il racconto muto di una persona. Dentro quelle case, i colori, attraverso le loro feritoie. Quando parlo delle case come di una sorta di DNA esistenziale, penso un po’ a questo. E mi piace ricordare mia nonna, quando diceva che la vita è un’affacciata di finestra. Oltre alla pioggia e al vento, nel grande racconto dell’uomo ci sono le case. Queste architetture sono come lo scheletro, ciò che resta, lo scorrere del tempo di tutta una serie di persone che le hanno abitate. Sono come tanti palcoscenici, tante scenografie in cui si sono alternate le commedie e le tragedie dei vissuti: sta tutto là dentro, al di là della parete, che crea un contorno spaziale, un contenitore a questo continuo passare di ognuno di noi.

Come conchiglie, secrete dal loro abitatore?

In realtà la conchiglia è dentro di noi ed è fatta di tutti i luoghi della nostra vita. È bella, la conchiglia: dice la sua età con una forma. E la porto su di me, come luogo della memoria: porto su di me il tempo che sono stato sulla terra, sapendo che anche dopo ne resterà traccia; meno effimera, questa, come nel suo calcare.

(Di notte, nel chiuso della stanza, nel chiuso della casa, con le finestre chiuse intorno al chiuso. Un rifiato di vento s’è levato, d’improvviso; ha gonfiato di suono l’ora indefinita. S’è levato un rifiato di vento, riportandomi ad altri uguali, da uomini diversi ugualmente percepiti; mi ha riportato al tuo. E al mio di un tempo, a tutti quelli dentro al tempo smarriti, da ogni epoca e da epoche diverse in cui esisteva una diversa me. Tutto è altro da ora, ma tutto è in un continuo. Un rifiato di vento s’è levato. Potente è il canto del vissuto)

***

A Milano, nel Museo Messina. Entriamo nel nitido chiarore d’archi e cristalli delle sue pareti, delle sue vetrine, nei bianchi e nei bronzi delle sculture esposte, nel baluginare da più punti delle proiezioni. Caleidoscopi. Paolo e Benoit non si sono appropriati dello spazio che li ospita, ma lo vivono, lo fanno vivere nella molteplicità delle sue presenze, non facendo fare un passo indietro alla sua storia. I ritratti e le sculture di Francesco Messina partecipano come permanenti abitatori che, riscuotendosi dai loro pensieri, vadano a vedere cosa accade. Entrano nello spazio ridefinito dalle opere estemporaneamente ospiti e delle proiezioni, che guardano curiose. Si crea anche grazie a loro, davanti e intorno a noi, in modo ulteriormente casuale – non legato all’evento ma dettato solo dalla loro pre-esistenza in quel luogo – un caleidoscopio di presenze significative. Siamo immersi in qualcosa che si costruisce e decostruisce via via, grazie all’elemento dinamico del film, che continuamente muta. Lo sfarfallio, dalla cripta semi-dischiusa, d’immagini in movimento nel buio. Un sonoro ne sale, come da un pozzo incantato. Ci si sente subito, dal primo passo in questo cinema di sogni, in uno spazio immaginario, in una di quelle stanze le cui porte solo nei sogni appaiono, all’improvviso, in una parete che ne era priva, e solo nei sogni si aprono, mettendo a un altro luogo, misterioso. Le porte dei sogni, le trottole delle immaginazioni, i frammenti colorati dei caleidoscopi: antichi giochi che parlano del prodigio combinatorio delle forme. È in forme che si combinano e ricombinano, che risiede tutto il nostro esperire. In colori che si accendono e svaniscono, in luci di intuizioni; in transiti casuali di oggetti, persone, voli; in continue visioni, dal moto di un viaggio, di tutto ciò che esiste nel gran teatro della bellezza e della pena, fra le pene del mondo, fra le sue distrutte o interminate rovine. Un “presepe fatto bene”, per un mese, vive nello spazio di questo museo, creato da un gruppo di personaggi convitati, da un concorso di elementi disparati in reciproca rifrazione, in una ripetizione, come un vapore di nube in transito, come un nastro di seta, anche se con ombre nere.

Da questa bellezza inquieta, esco nella notte, dove c’è il tempo ordinario, nel sempre: un asfalto cadenzato dal passo, nello sguardo, nel suo intrico di suoni. Fuori c’è il caleidoscopio della metropoli e del nostro passare. Dentro, alle nostre spalle, resta quella caleidoscopica scatola, quella lanterna magica, come un ricordo lieve. E, dentro di essa, tutti quei piccoli uomini che pensano o dormono e sognano, nelle loro cunette di bronzo, nelle loro caselle di storia – storia amara e storia stupita – in piccole ciotole accolti ma insieme prigionieri. Cantano gli uomini, sulla crosta del mondo, ebbri di voce sola accompagnata, fra gli stridi; sognano, nella chiara luna. Nell’imo della terra gli uomini disfano il perfetto manufatto che fu loro consegnato, frutto di un caso o di una qualche creazione. Lo distruggono, lo rendono mostruoso. Ma cantano, gli uomini, la bellezza della sua superficie; come in sogno, in un volo di bronzo, da un occhio innamorato, con delicate dita la continuano a cantare.