Maurizio Di Puolo

“Lavoro ancora con l’accetta di mio nonno. Mio padre gli ha rifatto la lama ed io il manico…”

                                                                                  Georg Christoph Lichtenberg

 

Tratto dal catalogo della mostra LA PELLE, I FRAMMENTI, LE SCATOLE DI LUCE, Galleria Carlina, Torino, Ed. Renografica, 2008

Della scultura di Paolo Delle Monache viene voglia di dire: guardate e basta, sognate e basta.
Aggiungere poi: chi guarda avverte anche la presenza evocata dell’assenza, della mancanza.
Nell’amore ci si manca tanto, nei ricordi ci si manca tanto: non parliamo della morte che “è” la mancanza, ma anche nelle Veneri acefale, abracciche, agambiche: dei miseri tronconi umani da mostro smembratore vengono tuttavia visti (un sasso di marmo) come l’emblema della bellezza…

Perché?
Cosa ci fa riempire mentalmente il vuoto?
Cosa ci porta a sentire qualcosa che non c’è (avevo uno zio, zio Augusto, che si grattava due dita mancanti rimaste nella circolare e questo fenomeno, me bambino, mi intrigava moltissimo) e quindi questi dialoghi delle statue di Paolo come frammenti di sogno?
Sempre si racconta “ti ho sognato ma non eri tu, cioè eri tu ma avevi un’altra faccia…ed eravamo in casa, ma non era la nostra casa però era quella”… tutti lacerti, frammenti slegati, un opus sectile mentale che ci lascia il ricordo di dettagli e non il tutto.
Perché Paolo seguita a scolpire?
Perché seguita a vedere l’essenza delle cose?
Perché non si quieta e non ci fa un bel donnone alla Botero?

Perché ancora, come Giacometti, seguita a sostituire il pieno con il vuoto?

L’unica immagine che mi viene in mente (oltre al ricordo di una persona che correva avanti con delle piccole scarpe di tela blu in una via di Ferrara alla due e trentacinque di un maggio a tre mesi di un brutto agosto), l’unica immagine dicevo sono quei pochi centimetri, credo quattro su fondo cinerino, tra due mani, gli indici di Adamo e Dio nella Sistina: non quasi un ettaro di affresco, ma quei quattro centimetri di vuoto.

Roma, Maggio 2000

Tratto dal catalogo DAMNATIO MEMORIAE, Maurizio di Puolo, Gangemi Editori, Roma, 2019

Scultore, una della voci più interessanti dell’arte contemporanea.

L’ho aiutato ad allestire molte sue mostre, ma ricordo con particolare nostalgia quella romana al Museo Barracco di Scultura Antica.

L’impresa era molto coraggiosa: confrontarsi con originali greci e romani di assoluto valore raccolti con passione dal Barone Barracco insieme e con l’intuito di Ludwik Pollak fino a formare una collezione unica nel suo genere.

Le opere di Paolo, in prevalenza bronzi, entravano perfettamente in dialogo con marmi di duemila anni fa confermando la teoria dell’archeologa Magda Cima, direttrice del Museo, che l’Arte quando è vera non ha tempo, tagliando corto sugli inutili discorsi tra stile e significato, navigando spesso controvento nella negazione – in questo caso – di una visione darwiniana dell’arte.

Si confermava a distanza di novant’anni lo spirito di Luigi Barracco e della collezione: da Lisippo ai mosaici del vecchio San Pietro, dai rilievi assiri alla Tomba di Nefer ed ora agli splendidi ritratti incompiuti di Paolo Delle Monache.

Ho scritto, in altra sede, dell’immagine ricorrente che mi appare ogni volta che vedo le sue sculture: quella delle mani di Dio e di Adamo nella volta della Sistina a pochi centimetri di distanza, in attesa del contatto come in una foto fermata di Robert Capa… ed anche in opere più recenti con le centinaia di piccole architetture traforate a creare una sorta di città ideale tra il sogno e le immagini di Dresda bombardata: anche qui il protagonista è lo spazio vuoto, quei pochi centimetri tra il sacro e il profano.
Cavallo di razza con tutti i pregi e i difetti di queste bestie pronte a farsi scoppiare il cuore per un traguardo e a imbizzarrirsi per una foglia che cade.