La scultura italiana del XXI secolo

LA SCULTURA ITALIANA DEL XXI SECOLO, 2010,
FONDAZIONE ARNALDO POMODORO, MILANO

a cura di Marco Meneguzzo, 20 ottobre – 30 gennaio 2011

CATALOG     INTERVIEW     PRESS

L’esposizione, attraverso le opere di 80 artisti da Nunzio a Dessì, da Cattelan ad Arienti, da Beecroft a Cecchini, da Demetz a Simeti, si propone di analizzare le ultime tendenze italiane nel campo delle discipline plastiche.

A distanza di 5 anni dalla mostra sulla scultura italiana del XX secolo che inaugurava la nuova sede della Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano, gli spazi di via Solari 35 ospitano  dal  20  ottobre  2010  al 30 gennaio 2011, un’esposizione che traccia un primo bilancio delle ultime tendenze italiane nel campo delle discipline plastiche.

Curata da Marco Meneguzzo, La scultura italiana del XXI secolo – tale è l’ambizioso titolo dell’iniziativa – presenta le opere di 80 artisti, tutti nati nella seconda metà del secolo scorso, dagli ormai storicizzati Nunzio e Dessì, agli esponenti delle generazioni più recenti, quali Cattelan, Bartolini, Dynys, Esposito, Arienti, Moro, Beecroft, a quelle ancora più giovani, con Cecchini, Sissi, Demetz, fino alle ultimissime come Sassolino, Simeti, Previdi, Gennari che verificheranno di quanto siano mutati i confini linguistici della scultura e se questi esistano ancora.

L’esposizione, che si pone in linea di ideale continuità con quella del settembre 2005, testimonia delle più diverse espressioni di quella che si potrebbe configurare come “la nuova tendenza della scultura”, oggi la disciplina più difficile da definire: i linguaggi si sono definitivamente ibridati, i codici tradizionali sono stati rapidamente abbandonati negli ultimi trent’anni, e quella che era la disciplina artistica più “certa” nelle definizioni è divenuta di fatto la più incerta.

Infatti, la scultura oggi rientra nel campo del transitorio tanto che quella pretesa di durata, segnata dall’uso di materiali quasi eterni come il bronzo e il marmo, rischia di essere percepita come anacronistica non solo dall’artista, ma anche dal suo pubblico.

Come afferma il curatore nel suo testo in catalogo, “Quando, cinque anni fa, esponemmo in questi stessi spazi La scultura italiana del XX secolo l’omogeneità disciplinare aveva ancora il colore e la consistenza del bronzo e del marmo, e ciò che vi si discostava appariva ancora come un succedaneo, un’imitazione di quelli; oggi, la presenza di quei materiali in una mostra, che è prima di tutto coloratissima e “morbida”, assume immediatamente i connotati della citazione. Certo, non è la qualità cromatica o tattile, per quanto così diversa, a poter determinare la domanda sull’esistenza in vita della scultura come disciplina a sé (dopotutto tutta la scultura antica era coloratissima), ma d’altro canto il confronto tra quello che è un “prima” e un “adesso” deve pur iniziare da qualcosa, e iniziare dall’evidenza è comunque una buona norma”.

Tentare una nuova definizione? Accettare tutto indiscriminatamente? Far dissolvere la scultura nelle  cosiddette  “installazioni”  o  addirittura  nell’architettura?  Questa  la  sfida  lanciata  con  questa  mostra  dalla Fondazione, che nei suoi primi cinque anni di attività si è caratterizzata proprio per l’opera di diffusione e di ricerca internazionale sulla scultura, nelle sue accezioni storiche ma anche più contemporanee. Questa è la linea programmatica in cui s’inserisce l’evento, con l’intento critico, scientifico e storico di sostenere la produzione artistica italiana, facendola conoscere internazionalmente, con artisti che appartengono alle tendenze più diverse, senza preclusioni se non quelle della qualità e del curriculum di ciascun artista, anche  se giovanissimo.

Accompagna la mostra un catalogo bilingue – italiano e inglese – edito dalla Fondazione Arnaldo Pomodoro.

Elenco degli artisti:

Adalberto Abbate, Mario Airò, Francesco Arena, Stefano Arienti, Rosa Barba, Massimo Bartolini, Vanessa Beecroft, Carlo Bernardini, Bertozzi & Casoni, Nicola Bolla, Corrado Bonomi, Monica Bonvicini, Enrica Borghi, Paolo Brenzini, Bros, Pierluigi Calignano, Paolo Canevari, Gianni Caravaggio, Letizia Cariello, Alice Cattaneo, Maurizio Cattelan, Umberto Cavenago, Loris Cecchini, Fabrizio Corneli, Vittorio Corsini, Salvatore Cuschera, Paolo Delle Monache, Gehard Demetz, Gianni Dessì, Chiara Dynys, Bruna Esposito, David Fagioli, Diamante Faraldo, Lara Favaretto, Flavio Favelli, Giuseppe Gabellone, Michelangelo Galliani, Anna Galtarossa, Francesco Gennari, Dario Ghibaudo, Eugenio Giliberti, Patrizia Maïmouna Guerresi, Massimo Kaufmann, Filippo La Vaccara, Marco Lodola, Claudia Losi, Carla Mattii, Sabrina Mezzaqui, Liliana Moro, Nunzio, Adrian Paci, Luca Pancrazzi, Perino & Vele, Diego Perrone, Alessandro Piangiamore, Alex Pinna, Paolo Piscitelli, Paola Pivi, Luca Pozzi, Riccardo Previdi, Simone Racheli, Annie Ratti, Laura Renna, Antonio Riello, Giovanni Rizzoli, Milo Sacchi, Andrea Sala, Arcangelo Sassolino, Maurizio Savini, Francesco Simeti, Sissi, Luca Trevisani, Patrick Tuttofuoco, Nico Vascellari, Vedovamazzei, Fabio Viale, Velasco Vitali, Antonella Zazzera.

Milano, 19 ottobre 2010


MARCO MENEGUZZO

Curatore della mostra

La scultura lingua nuova *
Questa mostra e questo testo nascono dal desiderio di verificare di quanto siano  mutati i confini linguistici  della scultura o addirittura – in una versione ancor più drastica – se questi esistano ancora. Può accadere, infatti, che nel corso della nostra vita assistiamo all’estinguersi di nazioni, di numerose specie animali, di una stella nel firmamento, per cui dobbiamo essere pronti anche alla sparizione di una disciplina artistica. Paradossalmente, sembriamo più disposti a sopportare la fine di una specie animale che a dichiarare estinta una categoria espressiva: forse la resistenza che l’amor proprio collettivo oppone a quello che sembrerebbe essere un fallimento personale dell’umanità, ci fa comprendere questo sentimento che tendenzialmente mira a procrastinare il più possibile la parola fine a ciò che abbiamo creato, soprattutto se questo appartiene alla  sfera espressiva romanticamente ritenuta più elevata. D’altro canto, si deve riuscire a distinguere la morte  dalla palingenesi, cioè l’estinzione dalla trasformazione in qualcos’altro – generalmente più ampio e più sfumato –, che però possieda caratteristiche linguistiche di base già presenti in nuce nella versione  precedente di quel linguaggio. Per fare un esempio, lontano dal nostro campo, quanto rimane del  melodramma in un musical? E quanto rimane del musical in un videoclip o nel concerto The Wall dei Pink Floyd?…

Quando, cinque anni fa, esponemmo in questi stessi spazi La scultura italiana del XX secolo l’omogeneità disciplinare aveva ancora il colore e la consistenza del bronzo e del marmo, e ciò che vi si discostava appariva ancora come un succedaneo, un’imitazione di quelli; oggi, la presenza di quei materiali in una mostra, che è prima di tutto coloratissima e “morbida”, assume immediatamente i connotati della citazione. Certo, non è la qualità cromatica o tattile, per quanto così diversa, a poter determinare la domanda sull’esistenza in vita della scultura come disciplina a sé (dopotutto tutta la scultura antica era coloratissima), ma d’altro canto il confronto tra quello che è un “prima” e un “adesso” deve pur iniziare da qualcosa, e iniziare dall’evidenza è comunque una buona norma.

Una versione utilitaristica e molto pragmatica di questo sostanziale cambiamento potrebbe insistere sui costi della scultura: marmo e bronzo sarebbero stati sostituiti da altri materiali, più a portata di mano, più facilmente lavorabili, per una questione di costo iniziale del manufatto, non più sostenibile da un giovane artista non ancora affermato. C’è del vero in questa considerazione, così come c’è del vero nella constatazione che prima o poi, da parte di un artista che si afferma e che può definirsi anche “scultore”, il desiderio di cimentarsi col bronzo e col marmo riemerge prepotentemente, spesso mascherato – come si diceva sopra – da “citazione”.  A nostro avviso non si tratta di una semplice questione economica, ma di un vero e proprio mutamento  epocale nei confronti dell’“oggetto”, inteso come manufatto, sia che si tratti di un comunissimo oggetto d’uso – un cucchiaio, uno strumento per l’intrattenimento – come di una scultura: il “sistema degli oggetti”, di cui fa parte anche la scultura, se la intendiamo nella sua accezione più vasta, è giunto a un punto per cui l’oggetto in sé non ha quasi più alcun valore, e la necessità della sua durata per questo tende a ridursi sempre più. Se questa condizione è verificata e accettata per tutte le categorie di oggetti, resiste – ma solo per ragioni sentimentali – il senso tradizionale della scultura, che ha nel suo statuto un’idea di durata che confligge con la cultura del ricambio continuo, dell’obsolescenza programmata, del transitorio e dell’effimero. Di fatto, però, questa situazione esistenziale non ha affatto messo al sicuro i linguaggi dell’arte dal senso di continuo superamento, di costante rinnovamento che la società postmoderna e globalizzata impone: al contrario, la riflessione sull’arte è stata tra le prime a teorizzare l’incessante superamento di sé, con la rivoluzione permanente delle avanguardie prima, con il riconoscimento e l’accettazione poi di una condizione di precarietà scambiata con il dinamismo mediatico ed economico. In questo clima, ci si chiede perché la scultura dovrebbe fare eccezione, e addirittura ci si potrebbe stupire del fatto che si tiri in ballo un qualsiasi problema di durata non legato a convenienze sociali – quali la forza del sistema museale, lo status symbol delle collezioni e dei collezionisti, un affermato valore economico di scambio, eccetera –, ma a statuti interni a qualsiasi linguaggio artistico, quali quello della scultura, appunto. Oggi, la durata della scultura è assolutamente equivalente a quella di qualsiasi altro oggetto d’arte, perché non esiste più nessuna differenziazione: l’unica possibile “richiesta” di durata potrebbe venire dal concetto di “monumento” – luogo tradizionale della scultura –, il quale però è ancora più in crisi.

Così, anche la scultura oggi rientra nel campo del transitorio, se non proprio dell’effimero, tanto che quella pretesa visibile di durata, marcata dall’uso di materiali (quasi) eterni come il bronzo e il marmo, rischia di essere percepita come anacronistica non solo dall’artista, ma anche dal suo pubblico, e se si arriva al punto che questa sia una sensazione immediata, significa proprio che tra lo statuto tradizionale della scultura e la  sua proiezione intellettuale contemporanea esiste una discrasia difficilmente ricomponibile, e che la quasi totale assenza di materiali tradizionali tra gli scultori d’oggi non è dovuta principalmente a questioni pratiche, ma a una vera e propria diversa concezione e percezione della scultura.

Eppure, continuiamo a parlare di scultura e – seppure con una sfumatura meno convinta – di scultori. Siamo dunque così legati anche noi a una categoria ormai inesistente, o l’essenza della scultura risiede da qualche altra parte? Cosa ci spinge a parlare ancora di scultura o, meglio, perché intuiamo oscuramente che certe opere d’arte possono ricadere ancora sotto questo concetto, mentre altre no?

Se si considerano gli elementi tradizionalmente fondanti la pratica della scultura – materia, forma, spazio o forse materia e forma nello spazio – si può pensare ancora a una possibile persistenza della disciplina  plastica, soprattutto se si riesce a pensare a quegli elementi in maniera allargata, vasta, talora metaforica.

Della materia – che è quasi inscindibile dalla forma – abbiamo già iniziato a parlare. Qui va osservato che la materia, così come è usata oggi, non ha quasi più nessuna attrattiva, nessuna motivazione in sé e per sé. Praticamente nessuno degli scultori più giovani sente più il mistero della materia, il senso della “resistenza” primordiale della materia all’attacco dell’idea, il bisogno di mostrare la materia per ciò che è, il coprotagonista/deuteragonista duro, difficile, scabro, bruto, che si oppone al diventare forma, attraverso quella sua indifferenza entropica che solo il faticoso lavoro può trasformare. Quasi nessuno prova più interesse a scandagliare questo grado linguistico così vicino allo zero, o per lo meno al grado originario della scultura, che è il rapporto tra materia e idea: per dirla in termini marxisti, la struttura della scultura ha lasciato il posto alla sovrastruttura, quando l’aspetto nobile e un po’ retorico (adesso) della “materia” ha lasciato il posto al “materiale”.

Quale sia la differenza tra materia e materiale appare, alla pari di ciò che potrebbe essere scultura e cosa no, intuitivo: la materia è magmatica, primordiale, indifferente o ostile, informe, originaria, radicata, eterna, pura, antiumana, mentre il materiale è definito, malleabile, duttile, utile, più o meno durevole, costruito, vissuto, storico, umano, vicino, quotidiano: ad esempio, la terra – materia – è ben lontana dal cemento – materiale –, che pure le assomiglia… e così, usando le categorie derivate dagli aggettivi usati sopra, si distinguono i materiali dalla materia. Naturalmente, materia e materiale hanno strette consonanze, e si può dire che il secondo derivi sempre dalla prima, ma ciò non esclude che questa specie di “decalage”, di slittamento dalla materia al materiale abbia conseguenze essenziali per le sorti del linguaggio plastico: abbandonata l’originarietà della materia, quando la scelta cade su di un qualsiasi materiale, l’attenzione si sposta su qualcosa che sembra meno essenziale, meno fondante e più quotidiano, più personale. Smessi i grandi sistemi come le grandi utopie del Moderno, la “discesa” verso l’uso di materiali che si avvicinano al concetto di “ready made” cambia radicalmente la prospettiva sia della costruzione della scultura che della sua percezione. La distinzione principale è comunque data dalla presenza, nel materiale, di una forma precostituita, caratteristica che porta con sé, a cascata, una serie di effetti che allontanano dal concetto tradizionale di scultura come “formare”, e lo sostituiscono con “costruire”, “riprodurre” o anche, forse di più, con “assemblare”.

 Milano, 19 ottobre 2010

* Estratto dal testo in catalogo edizioni Fondazione Arnaldo Pomodoro

 

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